Un “Volontariato” al servizio del razzismo e dell’esclusione sociale

L’episodio che ha visto come protagonisti due vigilantes (poi rivelatisi volontari senza nessun ruolo di sicurezza) che hanno ritenuto di intimidire un ragazzo africano scambiandolo come “accattone molesto” ha suscitato commenti e polemiche.

I due hanno agito sulla base di un giudizio basato esplicitamente sul colore della sua pelle: nero quindi accattone, delinquente, spacciatore… Il colore della pelle è un aspetto difficile da nascondere, per questo – in circostanze simili – uno arriva a sentirsi prigioniero del colore della sua pelle. Quando in realtà sono i prigionieri dei propri pregiudizi a essere causa di questi disagi. Disagi riservati anche a persone LGBT oppure ai clochard.

Giustamente in molti hanno fatto notare come sia uno dei tanti segnali della deriva razzista di questa nostra società, ma oltre a ribadire questo noi vorremmo riflettere sul perché siamo arrivati a questo punto.

Il primo aspetto che suscita stupore è apprendere, dall’intervista rilasciata al quotidiano “L’Adige” da Elda Verones, responsabile Apt di Trento, che questi due soggetti sono dei volontari e non fanno parte della sicurezza. In più conclude dicendo: “Un malinteso può capitare”. Una dichiarazione ipocrita il cui chiaro intento è quello di svincolarsi dal problema reale senza mai affrontarlo per davvero. D’altronde in una Provincia da poco a guida leghista pensate davvero che chi ha un incarico di rilievo in un ente pubblico abbia il coraggio di stigmatizzare il razzismo?

Poi occorre porsi alcune domande: se invece di un ingegnere si fosse trattato davvero di una persona che chiedeva l’elemosina sarebbe stato giusto tollerare che venisse intimidito e allontanato? E fare una cosa del genere la si può definire “volontariato”? Ormai a forza di parlare di “degrado” è divenuto egemone un discorso classista dai risvolti inquietanti.

Da decenni la presenza di persone che chiedono l’elemosina (siano essi migranti, anziani senza fissa dimora, persone con problemi di dipendenze da droghe e alcool o quant’altro) non è più vista come un problema sociale a cui intervenire con misure di sostegno alle persone in difficoltà, ma come un problema di ordine pubblico a cui rispondere con l’allontanamento o la reclusione dei soggetti in questione. Il potenziamento dei servizi pubblici e sanitari, sostegno al reddito, politiche di inserimento al lavoro o di edilizia popolare sono venuti a mancare dal discorso. Di fronte ad una persona che dorme su una panchina ormai il “senso comune” trasversale a tutte le principali forze politiche non porta più a domandarsi “come facciamo a dare una casa a questa persona?” ma piuttosto “come facciamo a cacciare questo straccione?”. E la soluzione, immediata e efficiente, spunta subito: si tolgono le panchine, si operano sgomberi dei giacigli, i senza tetto vengono privati dei loro averi gettati nell’immondizia e così via. Il salotto deve rimanere limpido.

Inutile fare poi gli “antirazzisti” di maniera davanti ai casi limite, il razzismo nasce da questa mentalità classista, da questa pratica di quotidiana esclusione dei più deboli. Certo, oggi stiamo assistendo ad un salto di qualità perché questa pratica si è fatta legge con il recente “Decreto su immigrazione e sicurezza”, ma è sbagliato dimenticare che c’è un “prima”, ci sono delle cause e c’è un percorso di scivolamento nel baratro durato decenni.

L’Italia e il Trentino salviniani non sono venuti dal nulla, sono il punto d’arrivo di una mentalità e di una prassi politica e perseguita con zelo bipartisan da grandi e piccoli reggitori della cosa pubblica, anche qui da noi. “La loro guerra nasce dalla loro pace come un figlio dalla madre e della madre porta in volto gli orridi lineamenti”. Scriveva ottant’anni fa Bertold Brecht riflettendo sul fatto che gli orrori del nazismo non erano venuti dal nulla ma si erano sviluppati proprio a partire dalla quotidianità del capitalismo. In molti devono averlo dimenticato e per questo vale la pena di ricordare che il razzismo nasce da sistemi di gerarchizzazione della società volti a criminalizzare chi non ha nulla e a tutelare i lauti profitti di chi ha tutto (quell’1% della popolazione italiana che possiede il 25% della ricchezza).

Ma veniamo, infine, al soggetto che ha dato origine a questa vicenda, all’intrepido difensore della città-vetrina natalizia contro quella terribile minaccia che sono gli “accattoni”. Questo valente giovane afferma di svolgere la sua mansione come volontario. La cosa non può che richiamare alla mente il fatto che anche nel 1919-20 gli squadristi cominciarono come “volontari” che sostituivano gli operai e i contadini in sciopero. Anche allora del resto si trattava di difendere il “decoro” della nazione borghese. Il paragone non ci sembra forzato visto che il nostro “volontario” ha introiettato a tal punto l’ideologia delle classi dominanti da impiegare più o meno gratuitamente il suo tempo libero non in una delle tante meritorie attività di cui è ricco il volontariato trentino (dai pompieri volontari, a chi distribuisce i pasti ai senzatetto, a chi insegna l’italiano ai migranti) ma piuttosto per scacciare dai mercatini di Natale chi chiede l’elemosina. Pur senza essere laureato il nostro paladino del decoro è stato capace di far compiere al concetto di “faccio volontariato” una torsione di significato degna di Orwell: la frase non identifica più chi aiuta le persone in difficoltà ma chi non vede l’ora di cacciarle.

Il nostrano paladino dei mercatini, a cui è bastato mettere una divisa qualunque per farlo sentire un vigilantes, ci fa venire in mente l’esperimento psicologico – mai concluso a causa dei risultati drammatici – condotto da un gruppo di ricercatori e dal professor Philip Zimbardo della Stanford University. Si trattava di assegnare i ruoli di prigionieri e guardie a persone comuni all’interno di un carcere simulato. Dopo poco tempo queste persone hanno iniziato a interpretare seriamente i ruoli assegnati tanto da costringere gli studiosi ad interrompere l’esperimento.

Occorre reagire, occorre ricordare che questo episodio non può essere trattato come l’ennesimo “caso isolato” o come un “malinteso”. È solo un piccolo esempio che getta luce sui meccanismi di questa società: lavoro gratuito, esclusione sociale ed infine razzismo esplicito. Non basta fare gli scandalizzati per qualche istante o sui social, occorre invertire il processo, occorre puntare il dito sui padroni e i gestori della città vetrina portando il conflitto sociale nelle piazze e nelle strade, anche in quelle dei mercatini di Natale.