La Catalogna e noi

Di fronte a quanto sta accadendo in Catalogna per ogni rivoluzionario, per ogni antifascista non vi è che una possibilità: prendere posizione contro la repressione poliziesca e la politica fascistoide attuata dal governo conservatore di Madrid e dalla monarchia spagnola. Gli avvenimenti delle ultime settimane hanno mostrato a tutti l’assoluta continuità di metodi, uomini e ideologie tra il franchismo e la cosiddetta «democrazia» spagnola. Dopo il discorso del Re ispirato al peggior nazionalismo è chiaro a tutti che il problema non sia semplicemente il governo spagnolo, ma lo stato spagnolo in quanto tale, le cui pratiche, istituzioni ed ideologie rimangono fatalmente segnate dalla vittoria fascista del 1939 .

Gli avvenimenti catalani hanno anche mostrato, ancora una volta, il vero volto dell’Unione Europea. I vertici dell’Unione hanno benedetto esplicitamente ed implicitamente la repressione messa in atto di Madrid, rifiutando di fatto di porsi come mediatori. L’allarme lanciato dal leader di Podemos Pablo Iglesias sulla possibilità che la Spagna si trasformi nella «Turchia d’Europa» appare realistico, ma non sono realistiche le speranze che una mediazione europea possa impedire la degenerazione autoritaria dello stato spagnolo.

La storia dell’emancipazione umana la possono scrivere solo i corpi in movimento e in rivolta delle donne e degli uomini liberi. Senza un movimento reale che costringa il potere a cercare forme di mediazione è vano qualunque appello «alla saggezza» e «alla moderazione» rivolto alle classi dirigenti. Se non incontra resistenze abbastanza forti da costringerlo a battere in ritirata, il potere non è mai moderato, né saggio. Per questo solo la resistenza a tutti i livelli delle forze antifasciste e realmente democratiche in Catalogna e nelle varie parti della Spagna può arginare una deriva autoritaria che sarebbe un attacco a tutte le autonomie locali e a tutti i movimenti sociali d’Europa.

L’incontro che terremo presso il Centro Sociale Bruno la sera del 12 ottobre ci darà modo di confrontarci con una dirigente del CUP (Candidatura d’Unitat Popular), forse la più importante tra le forze che agiscono all’interno del movimento indipendentista catalano e che con la propria azione all’interno di quel movimento mirano ad orientare in senso anticapitalista e antifascista le rivendicazioni del popolo catalano aprendo un conflitto con lo stato spagnolo che costituisce una forte scossa per tutta la governance liberista europea.

Naturalmente la nostra vicinanza e la nostra solidarietà contro la repressione e nella denuncia della natura fascista dello stato monarchico spagnolo ci impone anche di parlare alle compagne e ai compagni catalani con onestà intellettuale e una aperta volontà di interloquire. Riteniamo infatti vada sollevato un grosso interrogativo: la creazione di un nuovo stato nazione (più o meno borghese, democratico o socialista) è davvero il punto d’arrivo migliore per la lotta del loro popolo?

Abbiamo il dovere di interrogarci e di interrogarli con franchezza su questo proprio come abitanti di una terra dove i nazionalismi e i confini pesano ancora come un macigno sulle prospettive e la libertà dei popoli che la abitano. A nessuna lotta contro gli stati-nazione centralisti ed oppressivi mancherà mai la nostra solidarietà, ma della nostra solidarietà fa parte anche il rifiuto di qualunque feticismo delle identità, dei confini e dello stato.

Vorremmo inoltre porre alcune questioni di natura concreta alle compagne ed i compagni catalani schierati per l’indipendenza che riteniamo assumano una valenza strategica. Essi possono certamente proclamare l’indipendenza e anche riuscire a cacciare la polizia e l’esercito di Madrid, ma quello che ci preme conoscere è capire come reagiranno alla possibile fuga dei capitali e delle aziende. Creeranno una banca di stato catalana? Ma che soldi ci metteranno dentro se i risparmi dei loro concittadini verranno investiti altrove o esportati illegalmente all’estero? E se l’Unione Europea non dovesse accettare la loro adesione quanto pensano possa sostenersi la loro economia costretta a basarsi su un mercato così piccolo?

Quanto accaduto alla Grecia ci mostra chiaramente cosa accade quando il governo di uno stato prova a rifiutarsi di ubbidire ai dogmi del liberismo. La fuga dei capitali, il rischio di chiusura delle principali banche, la corsa dei risparmiatori agli sportelli, in una parola la completa paralisi dell’economia sino al punto di mettere velocemente in forse la stessa sopravvivenza fisica di milioni di persone piegano rapidamente anche il governo e l’opinione pubblica più combattivi. Non temono che, all’interno di un quadro di compatibilità con gli attuali assetti economici, una proclamazione d’Indipendenza possa danneggiare gravemente tutte le forze antifasciste spagnole e portare ad una Catalogna “alla fame” assediata da una Spagna neo-franchista e da un’Europa sempre più autoritaria?

Per quanto ci riguarda il concetto di «indipendenza» assume una reale valenza rivoluzionaria se intrecciato con quello di «autogoverno». L’indipendenza tout court rimanda infatti all’idea della creazione di un nuovo stato-nazione, ovvero alla creazione di istituzioni burocratiche e gerarchiche separate dalla vita reale della società e per questo incapaci di opporsi efficacemente alla forza sovranazionale e pervasiva del capitalismo. Indipendenza significa anche creazione di nuovi confini, di un nuovo recinto in cui ci si chiude credendo che sia un rifugio e si dimostra una trappola nella quale ci si infila da soli. Naturalmente siamo convinti che il concetto di «indipendenza» dei compagni e della compagne del CUP stia a indicare sicuramente molto altro e siamo interessati a capire come intendono concretamente operare questa sua risemantizzazione in senso rivoluzionario.

Per noi il concetto di autogoverno rimanda alle pratiche della Comune di Parigi, degli zapatisti e del Rojava; ha come proprio riferimento teorico il «Confederalismo democratico» di Abdullah Ocalan e mira non alla creazione di un nuovo stato, ma piuttosto alla democratizzazione radicale degli stati esistenti attraverso un processo rivoluzionario che li trasformi in confederazioni di autonomie territoriali basate su comuni obiettivi ideali e sul mutuo consenso di tutti i soggetti coinvolti. Autogoverno significa contropotere delle moltitudini e protagonismo della società in ogni ambito, in primis nella gestione del territorio e dei mezzi di produzione, ed è un processo che si costruisce gradualmente erodendo il potere dello stato e del capitale in una lunga e quotidiana «guerra di posizione» (concetto introdotto da Gramsci per indicare lo svolgimento dei processi rivoluzionari nei paesi dell’Europa occidentale) senza le illusioni di un’ora X e della “presa del potere”, ma piuttosto ricercando incessantemente il modo di trasformare radicalmente l’esistente.

Autogoverno significa partecipazione di tutte le componenti religiose, nazionali e di genere della popolazione di un territorio in modo da evitare il sorgere di conflitti in seno alle moltitudini e alle classi lavoratrici. Autogoverno significa non creare nuovi confini ma abbattere quelli esistenti, significa confederare le autonomie territoriali in una libera associazione di comunità e territori all’interno di alcune regole di base, con lo scopo di perseguire interessi ed ideali comuni, concertando insieme come ripartire oneri e vantaggi. Il funzionamento di una simile comunità politica non è affidato al principio di autorità, ma a quello della raccolta del consenso e dell’allargamento dei diritti di cittadinanza a tutti coloro che partecipano alla sviluppo delle comunità. Il suo scopo è quello di costruire istituzioni del comune che siano espressione di nuovi rapporti di forza tra moltitudini ed èlite, ma anche di confederare le diverse comunità su scala continentale, l’unica in grado di assicurarsi gli adeguati margini di autodifesa economica e militare dal potere del grande capitale.

Naturalmente il concetto di autogoverno non va confuso con le pulsioni «federaliste» che porteranno il 22 ottobre ai referendum in Lombardia e Veneto per chiedere che queste regioni possano godere di maggiori competenze rispetto alle altre (trattenendo una buona parte delle proprie tasse sul proprio territorio), divenendo di fatto simili alle regioni a statuto speciale come il Trentino Alto Adige. Tale «federalismo» non scuote affatto i meccanismi di governance neoliberale, ma si limita piuttosto a decentrare una parte delle decisioni e della gestione dal livello nazionale a quello regionale per dare al ceto medio di quelle realtà l’illusione di poter meglio investire i soldi delle proprie tasse. In realtà tutto continuerà a svolgersi secondo un’agenda incompatibile con gli interessi e la libertà della popolazione, l’amministrazione continuerà ad essere svolta come un management finalizzato alla messa a valore dei territori a vantaggio di una ristretta oligarchia e soprattutto i territori più periferici e poveri di quelle regioni continueranno a subire le decisioni di un potere distante. Stiamo infatti parlando di due grandi regioni che contengono al proprio interno una vasta varietà di territori con caratteristiche e quindi interessi diversi. Ad esempio gli abitanti delle zone montuose bellunesi o bresciane credono davvero che i politici di Venezia o Milano si cureranno di loro più di quanto fanno quelli di Roma? Non converrebbe loro piuttosto pensare a forme di autonomia che nascano dalla realtà fisica e geografica dei diversi territori e che affermino il diritto di ogni comunità di avere l’ultima parola in capitolo quando si parla dei suoi territori?

Riteniamo del tutto insufficiente che i poteri dello stato-nazione vengano solo trasferiti alle amministrazioni regionali e non messi in discussione per stimolare una reale partecipazione popolare nata dalla confederazione delle diverse comunità con i loro diversi bisogni. La mancata messa in discussione dell’ideologia e delle pratiche dello stato-nazione e del capitalismo sta infatti erodendo anche quella che per decenni è stata una delle esperienze di autonomia più avanzate a livello europeo: il Trentino-Alto Adige/Südtirol. L’autonomia della nostra regione si è sviluppata e consolidata nel tentativo di garantire una pacifica convivenza a popoli diversi sullo stesso territorio ed è riuscita sia a porre fine ad un sanguinoso conflitto che aveva già fatto decine di morti, sia (con il riformismo cattolico di Bruno Kessler) a migliorare nettamente le condizioni economiche e sociali di zone montane afflitte da secolare miseria. Ma oggi la nostra autonomia appare svuotata dall’interno. Le cause di ciò vanno ricercate nel mancato superamento della divisione etnica tra la popolazione di lingua tedesca e quella di lingua italiana (un male già denunciato a suo tempo da Alex Langer). Questa divisione ha inibito la partecipazione popolare rafforzando il potere di un ceto politico che nel recente passato ha potuto contare a lungo sulla possibilità di gestire un’enorme quantità di risorse economiche. Si è così resa impossibile la creazione di ogni reale solidarietà tra le due province autonome che formano la regione mentre i meccanismi dei loro processi di gestione si facevano sempre più autoritari e burocratici; impeccabili se visti dall’esterno ma svuotati in realtà di ogni senso e finalità. Di qui da un lato il permanere a livello di massa di una cultura fascista e nazista in provincia di Bolzano, dall’altro l’idea che l’estensione dell’autonomia a quella di Trento sia un «ingiustificato privilegio» anche agli occhi di molti dei suoi abitanti.

La morte di un rifugiato curdo-iracheno tredicenne a Bolzano, una delle città più ricche e con la più alta qualità di vita d’Europa, dopo che per sette giorni a lui e alla sua famiglia era stata negata ogni forma di accoglienza è stata il simbolo della morte di qualunque dimensione ideale, di qualunque prospettiva per il futuro. Può davvero reggersi a lungo un’autonomia il cui obiettivo è la tutela del piccolo e sempre più precario benessere privato all’interno di una società sempre più atomizzata e incattivita? Può reggersi un’autonomia che non propone un’idea di futuro e continua ad essere succube dei processi impersonali del capitalismo, incompatibili con l’autogoverno delle comunità? È davvero meglio essere governati da manager autoritari che comandano da Trento e Bolzano anziché da Roma?

È alla luce di questo ragionamento che vorremmo confrontarci con l’elaborazione delle compagne e dei compagni catalani, ponendo loro la domanda se sia davvero praticabile ed auspicabile una dichiarazione unilaterale d’indipendenza, o non sia piuttosto conveniente rifiutare la battaglia campale cercando invece di mettere in atto pratiche di autogoverno diffuso, sottraendo il più possibile con il protagonismo dal basso il territorio, la produzione e le vite dei catalani al controllo del governo di Madrid. Non renderebbe questo più facile un’azione congiunta di tutte le forze antifasciste, di tutti i popoli prigionieri della monarchia spagnola? Non potrebbero questi popoli porsi l’obiettivo comune di arrivare alla creazione di una repubblica basata sulla libera confederazione dei territori e dei popoli che formano l’attuale Spagna?

Non sarebbe già questo l’inizio di una rivoluzione che minerebbe sia il ritorno del nazionalismo, sia l’ipotesi neoliberista degli Stati Uniti d’Europa?