Novembre porta i primi freddi, ma qualche giorno fa insieme al gelo Trento si è svegliata con una notizia che ha lasciato esterrefatte non poche persone: il comune – in seguito ad alcune segnalazioni riguardanti un piccolo gruppo di senza fissa dimora che hanno adibito a giaciglio alcune panchine in Via Travai – ha deciso unilateralmente sulla rimozione di quest’ultime.
Che le ossessioni per la sicurezza e le misure “anti-degrado” non rappresentino delle novità per Trento (soprattutto alla Vigilia dei Mercatini di Natale, evento cardine della città vetrina) è ormai un fatto noto, ma questa ennesima accelerazione – in fatto di “decoro” – è tale da poter essere paragonata alle politiche anti clochard effettuate dalle amministrazioni di Gentilini a Treviso e di Tosi a Verona, con la conseguente riproposizione del modello “guerra ai poveri” anziché “alla povertà”. Un copione già visto che si apre con l’ostacolo alla presenza dei più indigenti per arrivare all’atto successivo, in cui non è prevista alcuna risoluzione al problema.
Questa logica, da anni messa in atto seppur con modalità e intensità diverse, ha fatto sì che determinate fasce di popolazione venissero dapprima escluse dai vari mercati, sia immobiliare che lavorativo, e successivamente dalla città stessa, relegandole negli angoli più nascosti, meno frequentati e periferici.
La città dei divieti e delle ordinanze riesce così a stravolgere alcuni dei concetti più basilari: chi subisce la povertà diventa automaticamente il “degrado”, un nemico da temere, da allontanare, da escludere, eliminare.
Paure frequentemente accavallate dalle forze politiche, dai partiti populisti di destra ai partiti che ancora si ostinano, in maniera ipocrita e narcisista, ad auto-posizionarsi verso “sinistra”, totalmente incapaci di comprendere i mutamenti sociali e affrontarli con azioni diverse da quelle intraprese da coloro che fanno del razzismo e dell’intolleranza le loro fondamenta.
Degni di nota sono anche tutti quei comitati di quartiere finalizzati esclusivamente allo svuotamento delle strade e delle piazze nelle ore serali, all’opposizione di chiunque provi a smuovere la placida palude dentro la quale vogliono arroccarsi, ancorandosi strenuamente a modelli anacronistici e fiabeschi nel concepire e nel vivere il territorio.
Invece, è proprio in momenti come questi che va saputa leggere la realtà.
Una realtà complessa in cui, nonostante siano sempre più numerosi, i lavoratori sfruttati, i migranti sotto attacco razzista, le famiglie e i singoli che hanno ogni giorno a che fare con povertà dilagante risultano essere paradossalmente più invisibili.
Una miopia che vede solo il povero da allontanare, ma non vede uno sfondo composto da precarietà diffusa, immobili sfitti, sfratti all’ordine del giorno, lavoratori licenziati e senza reddito, incessanti tagli al welfare, diritto allo studio compromesso, processi di gentrificazione che trasformano la città in un artificioso parco di divertimenti usa e getta, lasciandola totalmente in mano alla speculazione per farla esistere solo come un salottino per i consumatori benestanti.
Questa dinamica cittadina ben si inserisce nel contesto nazionale, in un periodo storico in cui, in nome dell’austerità e della logica stato-azienda, gli interventi volti ad arginare la disuguaglianza e la marginalità sociale trovano sempre meno spazio.
L’introduzione della legge Minniti, inoltre, ha rappresentato una vera e propria dichiarazione di guerra nei confronti dei migranti, dei poveri, dei movimenti di lotta, di tutta quella fascia di popolazione che mal si inserisce in questi rigidi schemi tanto auspicati.
Osservando queste panchine osserviamo inevitabilmente tante altre storie.
Storie fatte di iniquità sociale, di imbarbarimento generale, di assuefazione graduale alle ingiustizie che ci circondano.
Le panchine vanno rimesse, non ci sono mezze misure, “i se i ma” di auto-assoluzione rispetto alla loro rimozione. Ma il ripristino non può essere l’unico obiettivo. Rappresenta tuttavia uno step necessario per non retrocedere ulteriormente e spingerci in avanti verso una riflessione collettiva di più ampio respiro.
Infatti far sparire i poveri, non significa prendersela solo con il barbone, con l’immigrato, ma anche con la famiglia che fatica ad arrivare a fine mese, con il giovane precario a cui nessuna banca concederà un mutuo, con il cinquantenne disoccupato che non riuscirà a trovare un altro lavoro. Perché le logiche dell’austerità colpendo le soggettività più deboli della nostra società colpiscono tutti noi.
Occorre quindi invertire la rotta, rifiutare la colpevolizzazione della povertà per smascherare invece chi la povertà la produce, vale a dire quella ristretta élite che nel corso degli ultimi anni, proprio grazie alla crisi ha visto aumentare i propri profitti.
É questa élite a trasformare i centri delle nostre città in luoghi off limits per la gente comune: sono i loro meccanismi di messa a valore del territorio che cominciano espellendo senzatetto e migranti ma proseguono colpendo anche “le normali famiglie italiane”, poiché il punto d’arrivo della città-vetrina è adibire i centri storici esclusivamente al turismo e alle “esigenze di rappresentanza” delle dirigenze politiche ed economiche. In tal modo i prezzi delle abitazioni salgono alle stelle; case e palazzi diventano alberghi, Bed and Breakfast ecc., i negozi economici scompaiono per far posto “a quelli per turisti”. Insomma tutta la vita economica e sociale finisce per distaccarsi dai bisogni degli abitanti e viene piegata al profitto per pochi e miseria per molti.
La direzione da intraprendere deve perciò porsi l’obiettivo di contrastare i meccanismi dell’austerità e della gentrificazione che portano alla città-vetrina per favorire invece lo sviluppo della città reale, cioè lavorare per una città capace di una crescita equilibrata dal punto di vista ambientale, economico e sociale. Una città con una comunità che sappia farsi carico di chi vive per strada fornendo maggiori posti letto in dormitorio, più docce e pasti caldi, opportunità di vivere dignitosamente, di rialzarsi se si è precipitati in qualche baratro; una città che sappia limitare la speculazione intervenendo su un mercato immobiliare i cui prezzi (sia degli affitti che dei mutui) sono ormai totalmente fuori controllo.
Fare tutto questo significa rifiutare le politiche di contenimento della spesa pubblica e di espansione illimitata del profitto privato che abbiamo visto all’opera a livello europeo, nazionale e provinciale; ma anche costruire una nuova capacità di lottare per favorire politiche di inclusione sociale e di welfare rigenerativo, per riaffermare il diritto all’abitare e per far nascere esperienze di mutuo-aiuto e di autorecupero degli immobili sfitti.
Insomma non si tratta di mostrare “un pò di buon cuore” o “di fare posto anche ai senza tetto”, ma di accorgersi che questo modello di messa a valore della vita, del lavoro e del territorio a vantaggio di pochi se non lo fermiamo e non costruiamo un’alternativa prima o poi ci trasformerà tutti in senza diritti.