È tornata mercoledì sera la prima carovana della campagna #LesvosCalling promossa dal Progetto Melting Pot Europa, a cui abbiamo partecipato come delegazione di attivisti e attiviste del Centro Sociale Bruno.
La destinazione non è casuale: alle porte dell’Europa, sull’isola greca di Lesbo, a pochi chilometri dalle coste turche, sono confinati nel campo profughi più grande del continente oltre 21.000 migranti, persone che fuggono da guerra e fame e che vengono abbandonate a loro stesse da un’Unione Europea inerte e complice della loro condizione.
Il viaggio si proponeva diversi obiettivi, a partire dal progetto “Hygienic kit for women in Lesvos”, che ha portato sull’isola centinaia di kit contenenti prodotti igienici per le donne del campo (assorbenti, slip e sapone), che costituiscono più del 30% della popolazione presente a Moria. Siamo partiti in 23 da tutto il nord-est d’Italia per toccare con mano la realtà del campo, capire quanto incidono giuridicamente gli scellerati accordi tra l’UE e la Turchia sulla mobilità dei migranti, conoscere le più di novanta associazioni e ONG che lavorano quotidianamente sull’isola. Abbiamo partecipato alle assemblee con i migranti, verificato la situazione lungo la costa degli sbarchi a Skala Sykamineas e fatto il punto dei diritti negati con i diversi avvocati che lavorano nel Lesvos Legal Center.
Dividendosi in gruppi, tra il campo e le tante interviste fatte a migranti e volontari delle ONG, abbiamo riempito i sei giorni di permanenza sull’isola.
Il Campo di Moria
Una delle esperienze più impattanti è sicuramente il campo di Moria dove “convivono” oltre 21.000 persone, provenienti per la maggior parte dall’Afghanistan (più del 70%) ma anche dalla Siria (circa un 10%), dall’Iran e dall’Iraq. Ci sono anche africani, per lo più somali e camerunensi, che per scansare il pericolo della rotta libica hanno viaggiato per migliaia di chilometri solo per trovarsi in un altro inferno. I minori, poi, sono tantissimi (più del 40%), quelli non accompagnati sono circa un migliaio, i più piccoli non hanno compiuto un anno.
La scena che si palesa una volta raggiunto l’ingresso ha dell’incredibile: da entrambi i lati di uno spazio chiuso da mura e filo spinato e presidiato dalla polizia si sviluppa una moltitudine di tende a perdita d’occhio, che riempie i versanti delle colline di ulivi che ricoprono l’isola. Il campo ufficiale, quello governativo, potrebbe contenere fino a 3.000 persone e la situazione interna è già da tempo insostenibile tra servizi igienici insufficienti, container sovraffollati e tende sparse un po’ ovunque. L’accesso, peraltro, è precluso a chiunque non lavori o sia rinchiuso lì, anche se le vie di accesso secondarie sono molte e poco controllate a causa dell’incapacità di gestire la situazione.
Tutto attorno al filo spinato che circonda il campo ufficiale, però, si sviluppa quella che lì viene chiamata jungle, una giungla di tende di fortuna che si estende per centinaia di metri e che ospita la gran parte dei profughi che sono sull’isola. L’accesso non è controllato, ed è qui che opera la maggior parte dei volontari che lavorano a Lesbo, tra chi distribuisce vestiti e coperte a chi offre la possibilità di lavarsi, perché nella jungle non c’è né acqua né elettricità, rendendo di fatto impossibile poter mantenere delle condizioni di igiene o scaldarsi durante le sere invernali. Il personale medico presente ha riscontrato sindrome da stress post-traumatico, depressione, epidemie di scabbia. Autolesionismo e tentativi di suicidio sono all’ordine del giorno nel campo e nella jungle, soprattutto per i più giovani, che, confinati sull’isola non riescono a vedere una via d’uscita.
Nonostante l’atmosfera stagnante e senza futuro, l’attività è frenetica e scandita dal rumore incessante dei martelli usati per la costruzione delle “abitazioni”, costruite con pallet di legno e teli di plastica, alcune adibite anche a piccoli negozi di generi alimentari autorganizzati dai richiedenti asilo. Queste attività di fatto rappresentano per gli abitanti del campo l’unica alternativa: il cuore del campo è sovraffollato, soprattutto durante la distribuzione dei pasti. “Le chance di riuscire a mangiare sono quasi nulle, c’è troppa gente”, ci dice una donna siriana scappata da Damasco. “Per lo stesso motivo non possiamo accedere ai servizi igienici e alle docce, c’è gente che non si lava da 20 giorni”. Inoltre, i baracchini a bordo strada sono un modo di guadagnare qualcosa che permetta di sopravvivere al di là del pocket money di 90 euro al mese fornito dal governo, utile a malapena per comprare lo stretto necessario di una settimana.
Poco più in là si diramano decine di vicoli più o meno stretti che collegano tra loro tutte le parti di un campo di cui non si vede la fine, con cumuli di spazzatura alti anche due metri a pochi passi dalle tende. I bambini ci corrono incontro e abbracciano chiunque. “Hello, my friend” ripetono, continuano a sorridere e tornano a giocare e a rincorrersi. Giovani e meno giovani invece si avvicinano e salutano, provano a capire cosa stiamo facendo nel campo, tanti vogliono raccontare la loro storia, di come sono arrivati in quel posto dimenticato, confinati su un’isola hotspot, senza alcuna possibilità di muoversi. Se lasciassero l’isola la loro richiesta di protezione internazionale sarebbe automaticamente rifiutata e sarebbero rimpatriati o, peggio, rispediti in Turchia, dove sarebbero imprigionati e probabilmente torturati.
Anche l’abbandonare la tenda, seppur per poche ore, è un gesto rischioso perché si verificano frequentemente furti e questo porta i migranti a stare sempre in allerta. La tensione è palpabile, anche durante il giorno, ma è la sera che il campo diventa davvero pericoloso. La notte si deve rimanere svegli dentro la tenda ed essere pronti a tutto, perchè le risse sono all’ordine del giorno, molto spesso spuntano i coltelli e la gente muore. Moria non risparmia nessuno: è un buco nero dal quale è difficile riemergere una volta inghiottiti. A peggiorare la situazione, se non fosse già abbastanza drammatica, ci si mettono anche alcuni abitanti o turisti dell’isola: pedofili che attirano i bambini e li fanno sparire, come è stato raccontato da diversi profughi.
Questo è l’orrore che oltre 21mila persone sono costrette a vivere ogni giorno, per mesi o addirittura anni. Vogliamo ricordare che chi è a Moria è una persona, perché molto spesso quando si parla di migranti si parla di numeri e statistiche, di arrivi o deportazioni e ci si dimentica facilmente che si sta parlando di esseri umani, che soffrono, che meritano di essere trattati in modo degno e non dimenticati in prigioni simili. Proprio nei giorni in cui eravamo presenti un gruppo di richiedenti asilo ha inscenato una protesta per chiedere acqua e corrente elettrica, condizioni minime per sopravvivere.
Sei giorni sull’isola
Il nostro obiettivo primario all’interno del campo è riuscire ad entrare in contatto con i suoi abitanti. Vogliamo parlare con loro per capire qual è la situazione, come fanno a sopravvivere quotidianamente lì dentro, cosa è stato loro detto, qual è la loro esperienza con il sistema di accoglienza greco e come è cambiata la procedura di asilo dopo l’accordo tra l’Unione europea e la Turchia, dalle interviste per la registrazione della domanda d’asilo, alla sanità.
Non è semplice, per nulla. Appena entrati siamo subito frastornati dalla situazione che ci circonda, sopraffatti da emozioni confuse e aggrovigliate. Succede tutto un po’ per caso: tutti, uomini giovani e non, donne, bambini, ci salutano, con dei sorrisi stanchi. E poi, con alcuni, scatta un momento di contatto. Ti rivolgono quella domanda in più, ti fanno un gesto, anche solo la mimica posturale basta a farci capire che sono disposti a parlarci. E da lì inizia la conversazione, che molto spesso sembra non finire più. Hanno così tanto da raccontarci, e noi così tanto da chiedere. Il contatto umano, però, è ciò che rimane di più, soprattutto a posteriori. I sorrisi, le strette di mano, le loro voci. Quello rimane impresso in memoria assieme alle loro storie. Alcuni di loro, se possono, ci invitano nelle loro tende o all’interno delle “recinzioni” intorno alle loro tende per bere un tè caldo assieme.
E’ semplicemente impressionante come siano ospitali, e pronti a darci anche quel poco che hanno, in cambio della nostra presenza, o magari in segno di gratitudine per aver dato loro alcuni kit igienici.
Questo, infatti, è il nostro secondo obiettivo. Per le donne del campo, non avendo acqua per lavarsi, o per lavare i vestiti, la gestione del ciclo mestruale diventa davvero difficile; se poi si aggiunge il fatto che per comprare gli assorbenti devono chiedere i soldi agli uomini e che nei loro paesi d’origine certi argomenti sono tabù, si capisce l’importanza della nostra iniziativa.
Dobbiamo però trovare un modo per distribuire i kit. E’ un’operazione difficile, innanzitutto per la barriera linguistica che ci separa dai molti abitanti del campo che non parlano inglese, ma anche perché, se anche dovessimo trovare qualcuno con cui riusciamo a parlare, si tratta soprattutto di uomini, e il tema del ciclo è molto delicato, e non è sicuramente possibile parlare dei kit con loro. Abbiamo quindi provato a conoscere le persone a cui avremmo successivamente donato il materiale, farci raccontare il loro vissuto al riparo nelle loro tende. In questo modo oltre alla consegna volevamo che avessero la possibilità di dimenticare per un pò la loro condizione dentro il campo e raccontarci della loro vita, dei loro interessi o altro. Nonostante le difficoltà, quindi, in un modo o nell’altro ci facciamo capire, e riusciamo a distribuire la maggior parte dei kit che avevamo con noi all’interno del campo, senza dover ricorrere a intermediari. Vediamo dai loro sorrisi e dalle loro espressioni quanto ne abbiano bisogno.
Non siamo stati però in grado di consegnare tutti i kit che avevamo preparato, quindi abbiamo preso i contatti con un’altra ONG sul posto: Becky’s Bathhouse, che mette a disposizione docce e lavatrici per le donne del campo, alla quale abbiamo lasciato i kit rimasti in modo che potessero consegnarli alle loro utenti.
Nel tempo passato sull’isola abbiamo anche incontrato diverse ONG che collaborano sul territorio per prestare soccorso ed aiuto ai migranti.
Siamo stati a Skala Sykamineas, il punto più a nord di Lesvos, dove i migranti arrivano con i gommoni perchè è anche il punto più vicino alla Turchia e quindi il rischio di annegare è minore. Le coste della zona sono piene dei rifiuti generati a seguito degli sbarchi: giubbotti salvagente indossati dai migranti che, squarciati dagli scogli, rilasciano il polistirolo al loro interno, braccioli per i bambini che non sanno nuotare nella speranza che possano salvarsi in caso di naufragio, gommoni abbandonati e tanto altro. In questa zona opera Lighthouse Relief, una ONG che si occupa della pulizia della spiaggia e, in collaborazione con Refugees Rescue, del soccorso e prima accoglienza di chi sbarca. Abbiamo dato loro una mano nella pulizia e nel mettere in ordine la loro warehouse, ovvero il magazzino contenente vestiti da distribuire nel campo, vandalizzato qualche giorno prima da ignoti del paese.
In contrapposizione alla situazione disumana e alienante di Moria vi è il campo di Pikpa, situato in un’ex struttura turistica a pochi chilometri dall’aeroporto di Mitilene e nato dall’occupazione dello stabilimento ad opera di migranti e volontari, ora in fase di “ufficializzazione”.
Il campo conta un numero esiguo di ospiti rispetto a ciò che normalmente si aspetterebbe da un campo profughi, i volontari ci raccontano di come il loro obiettivo primario sia dare asilo alle persone più vulnerabili che giungono sull’isola, quali famiglie con infanti, disabili fisici e mentali, minori non accompagnati e numerose persone omosessuali che, in fuga dai propri paesi natali a causa delle discriminazioni, si trovano nuovamente perseguitate in un contesto già aspro ed invivibile quale il campo di Moria. Grazie all’impegno dei volontari e dei richiedenti asilo, a cui viene offerta la possibilità di lavorare nella cura del campo stesso e nella realizzazione di borse riciclando il materiale dei giubbotti e dei gommoni fuori uso, Pikpa riesce a dare ospitalità ad un centinaio di persone ponendole in un ambiente vivibile e sereno che nulla ha a che vedere con la situazione di Moria. Le tensioni che quotidianamente si accumulano e sfogano tra diverse etnie, culture e persone a Moria qui sono completamente assenti; le psicosi ed il disagio che si sono riscontrate nel campo principale non toccano gli ospiti di Pikpa, complici le condizioni curate e l’instancabile impegno di volontari e lavoratori per riuscire a dare più dignità possibile ai migranti in transito.
Abbiamo avuto la possibilità di parlare con il responsabile di Medici Senza Frontiere, che gestisce un piccolo ambulatorio pediatrico davanti al campo di Moria, troppo piccolo per far fronte alle necessità del campo, ma comunque un grosso aiuto rispetto a quanto fa il governo greco, che si dimostra completamente incapace di gestire la situazione sull’isola. MSF ha anche una clinica psichiatrica a Mitilene, aperta per far fronte alle patologie psichiatriche di cui soffrono, spesso, i migranti. Secondo l’organizzazione la situazione è paragonabile ad un campo in una zona di guerra.
Il viaggio non finisce
Anche se siamo ormai tornati al caldo ed al sicuro nelle nostre case, sappiamo bene che questo viaggio non è finito, per alcuni di noi è stato l’inizio mentre per altri invece un’altra tappa di un’esperienza che ci ha portato a conoscere meglio le condizioni di vita a cui sono sottoposte tutte quelle persone bloccate sui confini europei mentre cercano di raggiungere un luogo sicuro.
Ora che siamo tornati non possiamo fare altro che continuare a tenere alta l’attenzione e a contribuire ai progetti di solidarietà che mettiamo in campo ogni giorno nella nostra città: dalla scuola di italiano, all’ospitalità per i senza tetto, a costruire momenti di sensibilizzazione e mobilitazione affinché le politiche sull’immigrazione di questa Europa cambino e sia sancito il diritto fondamentale alla mobilità umana. Ma il nostro sguardo non può che rimanere ampio e non può che mettere la giusta attenzione anche sulle molteplici cause scatenenanti questa crisi umanitaria: le guerre, i cambiamenti climatici ed un sistema economico iniquo e predatorio, tutti fattori che devastano l’habitat di queste popolazioni e spingono le persone a rischiare la vita in mare o sulle rotte balcaniche nella speranza di trovare un presente di pace e di vita migliore.
Dopo aver visto tutto ciò non possiamo che essere ancora più fermi nelle nostre convinzioni e nelle nostre lotte, dopo aver visto i “nostri” slogan scritti sui muri di Lesvos, averli sentiti risuonare nelle parole dei rifugiati adulti e bambini, non possiamo che essere certi di quello che da anni diciamo: “Proteggiamo le persone non i confini, libertà di movimento per tutti e tutte!”.
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