Sulla situazione di Piazza Dante, sono anni che si scrivono fiumi di inchiostro e si sprecano ore di discorsi, ma non credevamo di arrivare a leggere i deliri e l’irrazionalità di questi ultimi giorni. Nessuno vuole negare che ci siano delle problematicità, ma il caldo afoso di giugno evidentemente ha dato alla testa anche a molti cronisti e opinionisti improvvisati.
Ma è analizzando le dichiarazioni politiche dei rappresentanti istituzionali, delle opposizioni e della questura, che emerge una sintesi allarmistica, molto piatta ed univoca: piazza Dante è invivibile, una terra di nessuno, conquistata da bande rivali che si contendono il mercato dello spaccio.
Eccetto l’encomiabile Vincenzo Passerini, presidente del CNCA del Trentino, e il sociologo Charlie Barnao, nessuno prova a fare un passo più in là, ad avere uno sguardo diverso, a non dare una lettura appiattita o semplificata, e provare a porre qualche domanda: chi sono i soggetti che vivono la piazza, da dove arrivano e che storie e quali percorsi hanno alle spalle? Come e perché sta cambiando la città in questi ultimi anni, quali sono i motivi di questa trasformazione e qual è la percezione di ciò che è realmente degrado? Interrogativi necessari per riflettere su quali possono essere le indicazioni auspicabili, quelle famose “linee guida” in grado di guardare oltre alle proprie punte dei piedi per provare realmente a migliorare la situazione.
Il gioco delle parti è oltremodo banale ed ancorato al “qui e ora”, nonché tutto speculare alla pochezza di idee e al mercato del consenso elettorale spiccio. Non ci stupisce trovare allineati in una panacea securitaria e razzista dal questore a Casa Pound, da Rossi al leghista da bar, dai 5 stelle al commentatore frenetico e risolutorio, per non dire nazista, da social network.
Da chi si offende per essere stato “toncato”, a chi usa le pagine dei giornali per bacchettare e per regolare conti che non c’entrano nulla con Piazza Dante, a chi sbraita slogan insignificanti e vuole fare le ronde, ognuno dei soggetti che si sono espressi hanno come minimo comune denominatore la ricetta repressiva e del coprifuoco militare come unico meccanismo per “ristabilire l’ordine e la sicurezza”.
Le ipotesi come al solito non si sprecano: si ventila la possibile recinzione del parco, si pensa all’incremento e al mantenimento all’infinito del presidio di polizia, e alla fine, ci si appella al potere centrale, che ha fornito a sindaci e questori, per mezzo del Decreto Minniti, il daspo urbano, un ottimo strumento per tagliar corto, dare l’idea di essere affaccendati a risolvere le criticità e, già che ci siamo, violare un pugno di libertà personali costituzionalmente garantite, in nome dell’ordine pubblico e del decoro, la nuova parola alla moda. Geniale.
E’ evidente che la volontà politica che sta dietro a questo grottesco balletto delle parti è taciuta: non si intende risolvere nulla ricercando soluzioni a lungo termine, ma si intende criminalizzare, blindare l’intera zona, isolare la piazza svuotandola da tutto ciò che non corrisponde al canone di decoro della città vetrina, della Trento del Festival dell’Economia per intenderci, bella da vedere ed inutile da attraversare. Ovviamente la città vetrina, proprio per la sua natura posticcia non prevede momenti di aggregazione e di socialità al di fuori degli “eventi” calati dall’alto, ed è questo a farne un non-luogo, una città vuota e pertanto percepita come insicura da molti e come terreno “di conquista” per qualcuno. Applicare una norma di legge che non possiamo che definire fascista, come l’intero decreto Minniti che la contiene, non farà che peggiorare la situazione, aumentando parimenti sia il vuoto che la percezione di insicurezza senza risolvere nulla. Scommettiamo che un’eventuale applicazione del daspo urbano non risolverà nessuno dei problemi della piazza per più di una manciata di giorni?
Per salvare Piazza Dante e tutta questa città, che si sta soffocando da sola, ci sono delle strade da percorrere, che fino ad oggi non sono mai state prese realmente in considerazione.
La prima, fondamentale, è ripristinare il primato delle politiche sociali e del welfare ogni qual volta si tratta il tema della prevenzione della marginalità sociale e della devianza. Anche se Trento è un città di circa 120.000 abitanti, ha delle caratteristiche derivanti da una società postmoderna: servizi accentrati, università in forte espansione, luoghi del consumo e soprattutto ricchezza (ricordiamoci che Trento è un città dove il reddito medio pro capite è tra i più alti d’Italia); è quindi fisiologico che ci siano fenomeni di migrazione, a maggior ragione in un periodo storico come questo. Serve a poco credere o sperare che le migrazioni si possano fermare o si possano erigere e fortificare muri e rinchiudersi nel fortino, occorre invece lavorare seriamente ad una piena inclusione delle persone migranti, assumendo fino in fondo questo compito, puntando su politiche di welfare innovative, costruendo strategie e piani adeguati e strutturali ai numeri attuali dell’accoglienza, rifuggendo dal pensiero che i flussi si esauriranno o che tutto si risolverà da sé. E nemmeno è pensabile che questa riflessione sia a compartimenti stagni, o definita secondaria oppure lasciata solo al no profit o al volontariato.
Quanto dall’alto, tanto quanto dal basso, ognuno deve fare la sua parte. La politica provinciale deve accogliere e pensare seriamente al percorso d’accoglienza e al dopo, cioè a quando finirà la permanenza nelle strutture. Non può più permettersi che il tutto sia lasciato sulle spalle degli operatori sociali o perennemente improvvisato: per fare politiche inclusive occorre una strategia condivisa con le categorie economiche, investire risorse che servano non tanto a creare nuovi organismi formativi fini a se stessi, o al massimo a finanziare qualche ente amico, ma a concretizzare progetti mirati al risultato, a fornire risposte concrete a bisogni reali.
Al tempo stesso anche il mondo della cooperazione e dell’associazionismo dal basso devono avere il coraggio di cambiare e di farsi sentire con maggiore vigore. Va preso atto che il Trentino, abituato da decenni a “mamma provincia”, può diventare realmente una comunità accogliente ed inclusiva se impara progressivamente a sganciarsi ed emanciparsi dai suoi vertici, se una fetta sempre più ampia del terzo settore e del volontariato cominciasse a non essere balbuziente, a non aver timore di farsi ascoltare e non desistere quando trova davanti a sè un muro di gomma. Siamo convinti che le competenze e le professionalità sono già presenti nella società trentina, che le soluzioni sono già a portata di mano. Si tratta di farle emergere, di portare quel mondo di sotto a galla e farlo divenire soggetto attivo e, perché no, conflittuale: è qui che potrebbero affiorare e prendere forma nuovi processi di welfare mutalistico ed innovativo.
Di esempi da fare ce ne sarebbero molti, bisognerebbe però che la politica provinciale perdesse il brutto vizio di considerarsi “l’ombelico del mondo”, di pavoneggiarsi e (auto)definirsi i migliori d’Italia. La fase del laboratorio trentino, alla quale tutto il resto del paese guarda (ne siamo così convinti?), se c’è effettivamente mai stata, è finita. Siamo all’anno zero e l’autonomia da sola non sarà l’argine che reggerà al baratro della frammentazione sociale, dell’individualizzazione e della guerra tra poveri. Occorre perciò provare a conoscere e realmente farsi permeare dalle esperienze che funzionano e che possono essere da stimolo. E finirla, una volta per tutte, di chiamare queste esperienze virtuose a qualche convegno solo per la fotografia di rito. Anteporre quindi la sostanza, il lavoro che porta risultati all’apparenza e al brand.
Le seconda strada, è quella della socialità e del piacere di scoprire che nella vita non c’è solo il far soldi, ma lo spazio dello stare insieme, della relazione e del vivere comune: Trento è una città che sta invecchiando e che fa scappare i giovani perché se non sono già vecchi a 20 anni, si sentono soffocare. In una città che ama definirsi universitaria, e che con gli studenti si arricchisce, non è pensabile che la burocrazia e le ordinanze repressive, impongano il coprifuoco e svuotino dopo le 19 un intero centro storico. Anche qui non ci sono mediazioni possibili. Per lasciare viva un città l’unica soluzione consiste nel consentire al maggior numero possibile di realtà associative e persone di poter portare nelle vie e nelle piazze di Trento la propria creatività, le proprie idee e passioni, la propria voglia di vivere. Gli spazi sicuri li fanno le persone che li attraversano, per questo non crediamo alle soluzioni di forza calate dall’alto, ad un modello di decoro entro cui si può riconoscere solo una parte della popolazione, ma crediamo nella riconquista degli spazi da parte di tutti.
Abbiamo bisogno di costruire comunità vive ed accoglienti dove ci sia spazio ed opportunità per tutti, nessuno escluso!