“Ma come, andava tutto così bene, così bene!”
“Il tasso di disoccupazione più basso d’Italia”, “il reddito pro capite tra i più alti”, “un’università che ci invidiano tutti” e ancora “l’amministrazione pubblica più efficiente”, “la scuola migliore” e per finire “una criminalità ridicola”.
Eppure, il centrodestra è oltre il 46%, la Lega da sola al 27%. Per la prima volta da sempre perché né il centrodestra, né la Lega hanno mai governato in Trentino. Una vittoria netta, assoluta nelle valli e più contenuta a Trento, ma comunque anche lì una vittoria.
Come è stato possibile? Se volete risposte consolatorie potete rivolgervi a chi non mancherà di fornirvene. Ma se invece vogliamo ragionare sul serio occorre lasciar perdere sia le imprecazioni che i tatticismi elettorali. Se anche l’ex-maggioranza del centro-sinistra autonomista si fosse ricompattata sarebbe stato inutile: il centrodestra supera comunque abbondantemente la somma dei loro voti e appare dubbio che chi ha votato per Ugo Rossi e per il PATT (Partito Autonomista Trentino Tirolese) lo avrebbe fatto anche se fosse stato alleato con il centro-sinistra e viceversa. Inoltre l’elettorato si è polarizzato: al centro tra la Lega con il 27% ed il PD con il 13% c’è solo il PATT al 12%, per il resto è una macedonia di liste e partitelli di cui il più grosso non arriva al 5%. Di fatto il mondo cattolico popolare, egemone in Trentino dalla fine del XIX secolo, non esiste più.
In Trentino è soffiato il vento della storia, si è chiuso un ciclo quantomeno pluridecennale ed è venuto meno un modello di società che sembrava tutt’uno con l’identità locale perché queste elezioni segnano il crollo di quella che possiamo definire la socialdemocrazia trentina.
Questo termine non è improprio, senza dubbio le classi dirigenti che l’hanno costruita appartenevano alla Democrazia Cristiana, ma il mondo cattolico-popolare trentino si è sempre contraddistinto per la sua adesione ad istanze sociali, per il suo essere realmente espressione di un “popolo” di piccoli proprietari o comunque di ceti medi produttivi. È riuscito a costruire l’autonomia strappando allo stato-nazione competenze e risorse in un modo che non ha forse eguali in Europa, a gestire la trasformazione di un’economia che negli ’60 è passata dall’essere principalmente agricola ad uno sviluppo industriale e poi il successivo passaggio dall’industria ai servizi.
La sussunzione delle istanze (e di una parte delle figure) del ’68 (che proprio a Trento ebbe uno dei suoi luoghi-simbolo) da parte della classe dirigente del centro-sinistra a trazione cattolico-popolare, unita alla forte disponibilità economica (la Provincia Autonoma di Trento può disporre di quasi il 90% delle tasse raccolte sul suo territorio e gestisce da sé buona parte dei servizi pubblici) ha determinato la particolare natura della società trentina per come si è configurata negli ultimi decenni.
Vale a dire una società sostanzialmente a-conflittuale, in cui il volontariato e l’associazionismo sostituivano l’impegno politico, con i sindacati che giocavano il ruolo di uffici distaccati dell’amministrazione provinciale incaricati di fornire determinati servizi. Dominava l’idea che “nessuno sarà lasciato indietro” e che la “buona amministrazione” unita alla “solidarietà” avrebbe potuto risolvere ogni problema.
Con l’andar degli anni questo sistema si è però pesantemente usurato. L’eccessiva dipendenza dal potere provinciale ha di fatto atrofizzato e svuotato i corpi intermedi della società nel momento in cui in tutto il mondo i meccanismi di governance si sono fatti più verticisti ed autoritari, più spietati nei confronti della gente comune. L’abitudine a rapportarsi direttamente con il potere politico all’interno di un “sistema” in cui in fondo l’accordo con chi teneva “i cordoni della borsa” poteva risolvere ogni difficoltà ha disabituato partiti, sindacati, associazionismo e in generale i “ceti medi riflessivi” non solo al conflitto ma anche alla pura e semplice capacità di raccolta del consenso o a qualunque forma di elaborazione politica di medio-lungo respiro.
Questo processo è stato particolarmente evidente negli ultimi cinque anni: al dirigismo del presidente della provincia Ugo Rossi, alle sue scelte spesso ideologiche e mal gestite (si pensi al trilinguismo e al CLIL nella scuola che nessuno ha mai saputo davvero come applicare) il PD suo alleato (e socio di maggioranza nella coalizione) non ha saputo opporre altro che personalismi, sudditanza e soprattutto il vuoto pneumatico nell’elaborazione. Di fatto il principale partito della Provincia Autonoma di Trento non ha mai saputo come far proprio il termine “autonomia”, non ha mai saputo declinarlo in chiave “progressista”, quindi non ha mai avuto una propria visione del futuro del Trentino. Vana fatica, per chi ha tentato di farla, chiedere ai suoi quadri e dirigenti di riflettere sulle complessità della regione multietnica di cui facciamo parte, di interrogarsi sulle dinamiche del capitalismo contemporaneo e di come stessero distruggendo il loro ben curato giardino. Erano troppo impegnati a “ben amministrare” un sistema che in realtà stava in piedi per forza di inerzia e si avviava verso la paralisi anche per le continue e contraddittorie sollecitazioni, sempre calate dall’alto per imperscrutabile e volubile volontà del presidente della Provincia.
Il “sistema” diventava inoltre sempre più sfacciato e autoreferenziale. I tentativi che abbiamo portato avanti assieme ad altre soggettività di correggerne gli abusi con le nostre mobilitazioni, ad esempio facendo notare che i lauti vitalizi dei consiglieri provinciali elargiti in piena crisi economica erano uno schiaffo in faccia alla miseria o chiedendo un’alternativa rispetto ai corsi di formazione per i lavoratori rimasti disoccupati (utilissimi solo per il ben pagato stuolo di consulenti provinciali) sono stati liquidati come provocazioni ed intemperanze di trascurabili untorelli. Ancora peggio hanno reagito quando abbiamo denunciato il razzismo montante o le falle del sistema di “accoglienza” trentino.
La Lega poi è finita per far campagna elettorale proprio sulle consulenze, sui vitalizi e sull’immigrazione, oltre che sul difficile rapporto centro-periferia, cavalcando ad esempio la questione dei punti nascite. Ovviamente è demenziale e forse anche impossibile pensare di poter tenere aperto un punto nascite in una cittadina di valle in cui il numero di parti all’anno è bassissimo, ma per spiegare questo e per trovare soluzioni alternative occorre una classe dirigente credibile e capace di trasmettere un’idea di futuro nel momento in cui le crisi del nostro tempo rendono impossibile continuare a vivere “come si è sempre fatto”.
Ma il centrosinistra ed i suoi addentellati sindacali ed associazionistici sono diventati sempre più simili a quei notabili liberali contro cui si scagliavano a fine Ottocento i neonati movimenti socialista e cattolico-popolare. Di fatto lo slogan non scritto del PD in questa campagna elettorale è stato: “Pofferbacco buona gente, non vorrete votare per quei buzzurri!”.
Di fatto poche centinaia di persone tra politici, quadri e dirigenti sindacali e dell’associazionismo hanno finito per parlare solo tra di loro credendo di continuare a rappresentare “il Trentino”.
Intanto nella società cresceva un rancore sordo e una vaga attesa di “cambiamento” purché fosse. Abituati ad essere amministrati dall’alto dagli “illuminati” di centro-sinistra i Trentini hanno dimenticato che il termine “autonomia” significa autogoverno, assunzione collettiva di responsabilità e rivendicazione del diritto di autodecisione ed autotutela contro ogni forma di dirigismo. Facile quindi che trovassero più convincente un qualche volitivo “duce” leghista rispetto al notabilato “progressista”. Abituati a pensare che “autonomia” significasse contributi provinciali a pioggia hanno trovato seducente lo slogan “contributi provinciali solo ai trentini” che di fatto apre la strada ad uno stato sociale su base etnica di tipo nazista.
Di fatto la socialdemocrazia trentina al termine del suo percorso ha prodotto un tipo di cittadino e di cittadina che non può che essere attratto dal fascismo: disabituato al conflitto o alla semplice messa in discussione dell’esistente, formalmente ubbidiente ma anche rancorosamente esigente nei confronti di un ente pubblico da cui si aspetta un pronto intervento per consentirgli di vivere “nel migliore dei mondi possibili”, programmato per svolgere il consueto percorso lavoro-casa-casa-lavoro senza dare confidenza a chi è fuori dalla famiglia o dalla cerchia di conoscenti di sempre, disabituato alla complessità e alla responsabilità, rinchiuso nel suo privato perché tanto alla dimensione pubblica ci pensa chi è pagato per farlo.
Certo, c’è una rete associazioni radicata e fattiva, capace persino per sostituire lo stato (pensiamo ad esempio ad un’istituzione unica in Italia come i vigili del fuoco volontari) ma questa rete associazionistica non è più realmente collegata a nessun idea di società, a nessun sistema di “principi”, neppure a quello cattolico. Di fatto si muove spesso per inerzia in un vuoto etico e questo è accaduto proprio perché la socialdemocrazia trentina è diventata amministrazione fine a sé stessa, priva di un’idea di società e di principi. La staticità in politica non esiste, o si sa indicare un obiettivo da raggiungere, un progetto di società da conquistare o fatalmente prevarranno le voci di chi vuole tornare indietro, soprattutto nei momenti difficili e densi di cambiamenti epocali.
Facciamo un esempio per capire la realtà di cui parliamo. In un simpatico paese del Trentino (2.000 abitanti circa) un ragazzo ammazza la fidanzata che lo vuole lasciare e poi si suicida. Il sindaco cerca di far mettere una lapide che ricordi “il femminicidio” ma su quel termine i paesani e la sua stessa giunta si spaccano, non vogliono offendere, non vogliono litigare, non sono in grado di prendere una posizione di principio. Il sindaco si dimette e la cosa balza alle cronache nazionali, una giornalista contatta alcune tra le diciotto (!) associazioni del paese, quelle che le paiono trattare problematiche affini alla tragedia, e… e nessuno se la sente di esprimere una posizione.
Vuoto etico dietro balconi fioriti, l’anticamera del fascismo.
In questo vuoto si è diffusa l’attesa messianica della vittoria leghista, la fede escatologica in Matteo Salvini assai più che nel candidato presidente Maurizio Fugatti, un leghista della old schoolbossiana che ha imbarcato nelle varie liste alleate ogni sorta di maneggioni, compresi i transfughi dal fu centro sinistra. Quella nei confronti di Salvini, è una vera e propria adorazione di massa, soprattutto nelle valli.
Nel momento di massimo successo a livello mondiale dei nazionalismi reazionari (spesso indicati con il termine improprio di “sovranismi”) la sua figura è caricata di significati salvifici, è il novello San Giorgio che sgomina il drago. Un drago che assume di volta in volta il volto dell’Unione Europea, della pensione che si allontana, dell’immigrato, dell’omosessuale, della ragazza che “non sta al suo posto”, del lavoro che manca o che diventa precario. Il drago della complessità del mondo contemporaneo che terrorizza sia lo sfruttato rimasto privo di punti di riferimento e di qualcuno che lo ascolti, sia lo sfruttatore che teme di perdere privilegi e rendite di posizione. Gli uni e gli altri si rivolgono oggi al salvatore felpato.
Siamo certi che gli sfruttatori saranno soddisfatti dei suoi servizi, assai meno gli sfruttati. E a loro ci piacerebbe rivolgerci, per imparare tutti insieme a cavalcare il drago invece che a esserne terrorizzati. Perché alla fine la complessità del mondo non la si può chiudere fuori dalla porta, non si può far finta che non esista, non serve implorarla di risparmiare il nostro ben curato giardino e non si può scacciarla a colpi di taser e discriminazioni. Anzi le soluzioni reazionarie e autoritarie finiranno fatalmente per far esplodere prima le contraddizioni, per rendere evidenti le fragilità di una società che si è pretesa a lungo perfetta.
Sappiamo che sarà lunga, sappiamo che sarà dura.
Ci sarà da studiare e da discutere. No, non riguardo alle beghe di partito o tra ex-notabili, ma sulla struttura e i problemi della società trentina.
E ci sarà da lottare. Lo facciamo da anni, abbiamo esperienza, ne faremo altra. Ciascuno di noi dovrà imparare giorno per giorno a tenere la schiena dritta, a non seguire la massa nel baratro del vuoto etico. E tutti insieme dovremo imparare come ridare significato al termine “autogoverno” perché è solo costruendo il reale e concreto potere decisionale della gente comune, il potere di disporre della ricchezza frutto della produzione sociale, il potere di disporre dei nostri territori, delle nostre vite e dei nostri corpi che si può trovare una soluzione alle crisi del nostro tempo.
Come sempre lo faremo camminando e domandando sulla strada della resistenza e della lotta perché non sarà certo scrivendo splendidi programmi in qualche salotto che si troveranno le soluzioni. Agli atti di chi ha un chiaro progetto ideologico come le forze che da oggi ci governano non si può rispondere solo con le parole, occorrono i fatti.
Occorre stare nelle vie e nelle piazze, stare al fianco di chi sarà colpito dalle discriminazioni e dall’esclusione sociale. Occorrerà creare reti di solidarietà e di mutualismo dal basso, come a Como, come a Riace. Occorrerà sbarrare la strada a chi vuole devastare i nostri territori, ad esempio costruendo la Valdastico. Occorrerà difendere il nostro centro sociale ed ogni altro spazio di libertà.
E occorrerà anche stare al fianco anche di chi oggi festeggia e domani si ritroverà magari licenziato o ulteriormente impoverito. Dobbiamo usare la nostra esperienza per far vedere che non bisogna subire come si è fatto finora, accumulando rancore poi sfogato verso chi sta peggio, dobbiamo tutti insieme portare sulle strade e sulle piazze i conflitti che covano sotto la cenere fino a fare in modo che siano le questioni ambientali, il diritto alla salute, al reddito, al lavoro, alla casa ad essere centrali nel dibattito pubblico e non più i deliri sulla “sostituzione etnica” o sul “gender”.
Noi non chiediamo a nessuno di stamparsi sulle nostre posizioni, non pensiamo di avere qualche verità in tasca. Chiediamo solo ci si parli scendendo dal piedistallo, per il resto chiunque voglia opporsi a chi ci governa può farci compagnia per il pezzo di cammino che preferisce.
Se ci cercate, come sempre, sapete dove trovarci. Dove si lotta, spalla a spalla, contro il nemico, quello vero.