Una sigla non fa movimento
Nella piazza di ieri, otto marzo, abbiamo ribadito che c’è una guerra in corso, una guerra combattuta con armi ben conosciute, ma non per questo meno letali: sono il patriarcato, il capitalismo, il razzismo e il sessismo. Sappiamo però che la storia la scrivono i corpi che resistono, che si alleano, si autorganizzano e si ribellano alle barbarie del presente per riappropriarsi del futuro delle proprie vite, a lungo rimaste soggiogate dal mirino del potere del Capitale.
È una guerra totale, contro chiunque non sia un uomo bianco cisgender eterosessuale crogiolante dai luccicanti piani alti della borghesia. E questa guerra la subiamo quotidianamente anche noi compagnə che attraversiamo, viviamo e animiamo il Centro Sociale Bruno. La subiamo in quanto donne, migranti, soggettività queer, trans e non binarie. Sono le violenze e le discriminazioni causate da un sistema fragile quanto brutale e che abbiamo imparato a conoscere sin da piccolə, dalla famiglia alla scuola, passando per il posto di lavoro, le questure, i tribunali, gli ospedali, e tutti giorni in casa e per strada.
Rifiutiamo al contempo di portare avanti la nostra narrazione partendo da una posizione vittimistica. A chi ci vuole passivə e indifesə rispondiamo praticando percorsi di lotta e solidarietà dal basso, creando spazi liberi e liberati di confronto, mutualismo, socialità e riscatto collettivo. Siamo a fianco l’unə all’altrə contro chi contrappone il profitto alle nostre vite, chi distrugge l’ambiente, saccheggia i territori, ci avvelena e ci controlla.
Camminiamo domandando, come ci insegnano lə compagne zapatistə, per costruire un mondo che vogliamo essere all’altezza di attraversare e lo facciamo partendo dalle esperienze delle nostre comunità resistenti e solidali, frutto del costante impegno collettivo di tuttə noi.
Anche per questo abbiamo sentito la necessità di costruire insieme la data dell’otto marzo, in uno spazio che ci aspettavamo di trovare in linea a quello che si professava di essere, ovvero sicuro, aperto e inclusivo.
Come in ogni percorso condiviso e collettivo, è spesso necessario mettersi in discussione, ascoltare, fare un passo indietro così da avere lo slancio necessario per compierne poi due in avanti, insieme. È stato con questo spirito che abbiamo partecipato sin dall’inizio al percorso di costruzione della piazza dell’otto marzo, portando e ascoltando proposte, intrecciando pratiche ed ideali.
O questo era quello che credevamo.
Quello che abbiamo constatato è stata invece una gestione elitaria, strumentale e totalmente anti femminista dei momenti di confronto nei quali avremmo dovuto costruire la giornata di mobilitazione.
A meno di 72 ore dalla data prevista per la manifestazione che fino a quel momento abbiamo co-organizzato, quello che ci appariva come la convocazione di un punto logistico per discutere delle ultime e imminenti questioni operative, nella realtà dei fatti si è tramutato in un processo degno della Santa Inquisizione, architettato e chiamato da due organizzazioni alle spalle di tutte le altre, autoproclamatesi portatrici della Verità rivelata sul transfemminismo. Forti di questo, sovradeterminando il resto del processo partecipativo, hanno letto la loro sentenza: lə compagnə del Centro Sociale Bruno non sono all’altezza di trattare temi come il femminismo e il transfemminismo, men che meno abbastanza femministə per costruire l’8 marzo al fianco di Non Una Di Meno Trento e del Collettivo Transfemminista Queer.
Ma quale sarebbe il transfemminismo di cui non siamo degnə, tanto decantato e sbandierato da questə Papi e Papesse della Parità? Che cosa abbiamo da imparare, con così colpevole ritardo e imperdonabile inadeguatezza, da chi non si pone il problema di condividere un percorso decisionale in maniera democratica ed orizzontale nemmeno all’interno delle proprie realtà? Che cosa c’è di transfemminista nell’accusare, dal proprio altare, senza dare vere motivazioni, una compagna (e con lei tuttə lə compagnə del Centro Sociale Bruno) di non essere all’altezza della lotta? E cosa c’è di femminista nel ritenerla una marionetta inerme nelle mani dei compagni maschi del suo spazio sociale?
Ci sono state mosse le accuse più disparate, come realtà e come singolə, espresse in modo paternalistico e in un contesto violento e di deplorevole sufficienza, con le modalità tipiche del branco machista e del bulletto fin troppo cresciuto che trae la propria soddisfazione dal denigrare e umiliare una compagna di 20 anni. Abbiamo sperimentato quanto l’arroganza di chi si sente in potere di elargire sermoni e distribuire penitenze, pretendendo di insegnare cosa sia il transfemminismo e come lo si debba vivere e praticare, sia la stessa di chi non si interroga affatto sul perché i propri spazi non siano attraversati e attraversabili da soggettività che non siano plasmate a loro immagine e somiglianza.
Delle scuse goffe e “salva-faccia” individuali che ci sono arrivate postume ce ne facciamo ben poco. Ieri in piazza c’eravamo tuttə, perché qualcosa da dire ce l’avevamo eccome, perché l’8 marzo non è un evento esclusivo a cui si accede previo invito e lista vip. Una sigla non fa un movimento e riteniamo che le pratiche contino più di certe belle parole che alle nostre orecchie riecheggiano come vuote.
In quella piazza abbiamo rivendicato la nostra appartenenza a un movimento che tiene assieme, nella teoria e nella pratica, percorsi di lotta e di solidarietà intersezionali, anche di fronte a chi auspica solamente l’annichilimento altrui e che pensa sia possibile scindere un collettivo politico dalla sua componente studentesca, che ne è il cuore pulsante.
Da quella piazza però ce ne siamo anche andatə, perché non riconosciamo la legittimità del tentativo di monopolizzare e manipolare percorsi di lotta transfemminista da parte di chi confonde un percorso di reti con un collettivo, che a sua volta viene inteso come un orticello personale in cui si coltivano ego e autoreferenzialità, coccolatə e protettə dalla sicurezza trasmessa da una sigla che un giorno ha deciso, da solə, di meritare.
Non ci interessa la polemica sterile e fine a se stessa, ma riteniamo che su questo muro una crepa sia da tempo necessaria, confidando che da lì possa entrare un nuovo spiraglio di luce che ci aiuti a creare e ripensare comunità e alleanze, per lottare insieme contro un sistema valoriale e politico che ci vuole all’angolo silenti, mentre distrugge, sfrutta, saccheggia e precarizza le nostre vite e i nostri territori. La lotta sarà transfemminista e intersezionale, oppure non sarà.
Centro Sociale Bruno
Coordinamento Studentesco Trento