Pubblichiamo di seguito un testo scritto da Francesca Manzini,una compagna del centro sociale Bruno, che attraverso gli strumenti di lettura dell’antispecismo pone una riflessione in merito alle capre appartenute ad Agitu Ideo Gudeta. Questo testo vuole portare un punto di vista diverso e contemporaneamente stimolare un dibattito sui temi dinnanzi ai quali ci pone l’antispecismo.
Nell’Italia sessista e razzista dei giorni nostri, dove una donna in quanto donna viene uccisa con metodica regolarità una volta ogni tre giorni, e dove le morti nel Mediterraneo dellə disperatə in fuga da guerra e povertà nemmeno vengono più conteggiate, capita talvolta che un particolare fatto di cronaca riesca in breve tempo a tracimare dalla stampa locale e a scalare la classifica delle notizie tanto da diventare virale su tutti i mezzi di comunicazione, travalicando anche i confini nazionali. Che si tratti di razzismo o di sessismo poco importa, ci sono sempre “vittime ideali”, quelle della cui morte violenta i media si impegnano a raccontare ogni dettaglio, con inquietante dovizia di particolari e sulle quali l’opinione pubblica del “bar sport-Italia” ha sempre qualcosa da commentare.
L’orrendo femminicidio di cui è stata vittima Agitu Ideo Gudeta è diventato nel giro di poche ore uno di questi casi, e così stampa, TV e in particolare certi bassifondi dei social network si sono sperticati in ogni genere di sproloqui e narrazioni tossiche a 360 gradi. Da un lato le più becere narrazioni razziste dove, una volta identificato il responsabile, non si è esitato ad esprimersi rispetto all’omicida nei termini di “bestia ghanese” o a gongolare del fatto che quello che in un primo momento si sospettava essere un delitto di matrice razziale era invece una storia di “africani che si ammazzano tra loro”. Dall’altro una narrazione più sottilmente razzista, ovvero quella dell’elogio a reti unificate della memoria del deserving migrant[1] in opposizione alla condanna unanime dell'(altro)immigrato – da subito identificato come “clandestino” – evidentemente colpevole di non essere riuscito “ad integrarsi” quel tanto che basta ad allontanarsi dagli “incivili usi e costumi” tipici del suo continente di origine.
Il percorso di Agitu, la sua fuga dall’Etiopia a seguito della militanza politica in opposizione al vergognoso e colpevolmente taciuto fenomeno del land grabbing, quindi il suo riscatto imprenditoriale in una piccola provincia del nord Italia, non può non rappresentare l’esempio “modello” cui lə buonə italianə non (coscientemente) razzistə anelano quando si tratta di difendere il fenomeno migratorio che moltə altrə invece condannano in partenza. Col passare degli anni, Agitu non solo era riuscita a ricavarsi un suo ruolo lavorativo e “pubblico” nel Paese in cui si era trasferita, ma in particolare il lavoro che aveva deciso di svolgere l’aveva insignita di un ulteriore valore aggiunto. Aveva infatti aperto un’azienda casearia biologica, occupandosi della reintroduzione di una razza di capra autoctona ormai estinta sull’arco alpino, utilizzando come pascolo terreni demaniali abbandonati. Agitu, costretta alla fuga dal suo Paese d’origine ed arrivata a Trento con pochi spiccioli, rimboccandosi le maniche e non perdendosi mai d’animo, era riuscita a mettere in piedi una piccola impresa – il cui spirito positivo era ben rappresentato dal nome che aveva scelto (“la capra felice”) – che aveva ben presto avuto un buon successo. Oggetto degli insulti razzisti di un vicino (poi condannato per stalking) di nuovo non si era lasciata abbattere, ed era stata in grado di trarre ancora più forza da questo brutto episodio anche grazie al sostegno che tantə singolə e associazioni le avevano dimostrato. Insomma, consapevolmente o no, Agitu si è ritrovata ad incarnare fino in fondo il ruolo della “migrante ideale”, il cui esempio di vita “virtuoso” era in grado di mettere di buon umore chiunque incrociasse lei e la sua storia. E ora che Agitu è stata strappata in un modo così inaccettabile all’affetto delle tante persone che l’avevano conosciuta, tutto ciò che aveva rappresentato in vita sembra volersi cristallizzare nel ricordo indelebile di un esempio da prendere a modello senza se e senza ma.
Le centinaia di articoli e commenti che hanno ridotto Agitu a “modello d’integrazione” o quelle che hanno provato a mitigare la posizione del suo omicida tirando in ballo il “solito” raptus seguito ad una discussione per uno stipendio non pagato, a mio parere non sono però le uniche narrazioni problematiche di questa vicenda. Ed il corpo di Agitu non è l’unico sul quale in queste settimane si sta pontificando. Una trattazione a parte meriterebbero, a mio parere, gli innumerevoli riferimenti alla supposta felicità delle capre dell’azienda di Frassilongo. Come già detto, non si può negare che una buona parte della notorietà di Agitu fosse legata al lavoro che aveva scelto di portare avanti, una scelta che in queste settimane trova il plauso di gran parte dell’opinione pubblica. E così abbiamo assistito ad una molteplicità di messaggi ed immagini che a partire dal mio posizionamento antispecista non posso non problematizzare.
Dalle vignette dove capre addolorate piangono su pezzi di formaggio a forma di cuore, ad una serie di dichiarazioni di questo tenore: “le capre ora non sono più felici”, “i capretti che nasceranno a giorni richiedono cure e attenzioni”, “la capra felice aveva l’obiettivo di salvare anche dagli attacchi degli orsi una specie di capra in via d’estinzione tipica delle valli trentine” e ancora “voglio solo che le caprette di Agitu siano di nuovo felici”.
Non ci è dato sapere se le capre felici fossero realmente tali, le nostre differenze di specie – che nessun antispecista seriə nega – ci impediscono di avere certezze su quello che un qualunque animale non umano percepisce in termini di felicità, tristezza, paura, desideri, nostalgia. Tuttavia, il dolore che un cane o un gatto provano alla scomparsa dellə loro compagnə umanə (e viceversa) ci sono talmente familiari che su questa tematica sono stati scritti libri e girati film di successo. Possiamo quindi ipotizzare che sì, le capre sentiranno la mancanza di chi si è occupato di loro per tanti anni; ma se c’è disponibilità reale all’ascolto del dolore che gli animali non umani provano, non possiamo davvero credere che l’unica perdita in grado di causare loro un dispiacere significativo sia quella di un essere umano. Il rapporto allevatore/allevato è per forza di cose caratterizzato da tutta una serie di dinamiche di potere che nell’arco della vita di un esemplare “da latte” si sostanziano, tra le altre cose, in innumerevoli separazioni forzate da fratelli e figli maschi.
E nel corso di una nota intervista televisiva era stata la stessa Agitu ad ammettere di non essere completamente a proprio agio col fatto di dover trattare i capretti maschi come un prodotto di scarto, tanto che era sollevata quando riusciva a darne in adozione qualcuno anziché mandarlo al macello. Notiamo quindi come il sistema della narrazione della “fattoria felice” stia in questi giorni lavorando alacremente per mettere in luce alcuni aspetti della vita del gregge, tenendone al contempo altri in ombra. Ad emergere dai vari articoli è soprattutto il racconto della necessità vitale che questi individui avrebbero di unə padronə che provveda ad amministrare in tutto e per tutto la loro esistenza. Come fossero bambinə indifesə dinanzi ad un imminente pericolo.
Ora che Agitu non c’è più, come potranno essere di nuovo felici? Come riusciranno ad occuparsi dei loro figli? Chi proteggerà il gregge dagli attacchi dei predatori, o peggio dall’estinzione? In tutti questi interrogativi non possiamo non cogliere una delle pratiche più tenaci che il pensiero coloniale ci ha purtroppo lasciato in eredità, quella di prendere parola per altrə, minorizzando tutte quelle categorie di individui giudicati non in grado di prendersi cura di sé: dallə bambinə, alle donne, ai membri dei tanti popoli colonizzati a forza, alle persone (valutate) fisicamente o mentalmente non abili, e la lista potrebbe continuare a lungo. Nel mondo che l’antispecismo sogna, liberato dalla tracotante onnipresenza dell’essere umano, non esiste specie animale che non sarebbe in grado di provvedere alle proprie necessità senza il supporto (interessato) dei membri di un’altra specie. Credere che le cose stiano diversamente serve soltanto a coprire con un lenzuolino pudico, fatto di mille giustificazioni, l’imbarazzante verità che si cela dietro qualunque forma di allevamento: il fatto che il rapporto che intratteniamo con chi viene allevatə non è mai egualitario, è sempre di potere.
La grande popolarità del cosiddetto “allevamento etico” è certamente dovuta al fatto che consumatori e consumatrici sono più tranquillə nel nutrirsi dei derivati dei corpi animali quando convintə che essi provengano da una filiera percepita come “buona”. Il nome che Agitu aveva scelto per la sua azienda, sommato al suo carattere volitivo e solare, forniva alla clientela la rassicurazione necessaria a consumare i suoi prodotti con cieca serenità, al sicuro dagli interrogativi disturbanti che il consumo di prodotti provenienti da quel girone infernale che ormai tuttə sanno essere l’allevamento intensivo e che riempiono i supermercati potrebbe invece provocare. Certo lasciando a lei l’ingrato compito di gestire, lontano dalla scena, tutte quelle pratiche più o meno violente che sono connaturate nel mestiere dell’allevatorə.
Per molte diverse ragioni la cosiddetta “bio-violenza”[2] è un’ideologia davvero difficile da smantellare poiché affonda le proprie radici molto in profondità, in territori costellati di interrogativi in cui il consumatore medio occidentale non vuole imbattersi. Ma la verità è che non esiste uso lecito dei corpi senza consenso, e non c’è animale che baratterebbe la propria vita o quella dei propri figli in cambio di buon cibo e (temporanea) ospitalità. Non c’è scambio che non faccia rima con prevaricazione quando uno dei due soggetti coinvolti deve mettere sul piatto della bilancia la propria stessa esistenza. Credere che sia possibile produrre tutta una serie di alimenti col benestare di chi ha dovuto sacrificare la propria vita o quella dei propri figli è una semplice illusione, che il sistema di smembramento istituzionalizzato dei corpi non umani si impegna quotidianamente a fomentare.
E a chi si dovesse sentire a disagio nel leggere queste parole rispondo che l’antispecismo, oltre ad essere – lo ammetto – “un’esperienza emozionalmente estenuante”[3], è per sua stessa natura disturbante. Così come il transfemminismo, nemmeno l’antispecismo è una spilletta che ci si può appuntare sul petto senza abbracciarne fino in fondo la radicalità. E che ci mette in mano strumenti che ci permettono di osservare i tanti episodi che ci contaminano quotidianamente con lenti nuove e potentissime: laddove altrə vedono neutralità, noi vedremo invece i tanti limiti o le potenzialità dati dall’essere oppressə od oppressore.
Per combattere un sistema così mistificatorio e complesso dovremmo iniziare ad interrogarci sull’uso manipolatorio che sui più disparati canali di comunicazione aziende grandi e piccole fanno di immagini di animali felici che corrono liberi nel contesto di paesaggi bucolici, al fine di collegarle al prodotto animale che intendono vendere (qualunque sia la filiera reale dal quale esso proviene), e sulla ingannevole sovraesposizione mediatica che trasmissioni televisive naturalistiche dedicano alla realtà di piccole aziende a conduzione familiare che nei fatti ospitano una percentuale veramente irrisoria dei capi di bestiame macellati ogni anno nel nostro Paese. E dovremmo imparare un linguaggio che sia all’altezza di contestare il messaggio ingannevole della bio-violenza ogni volta che ci si presenti, rivendicando il diritto di ogni animale all’autodeterminazione e ad avere una voce propria. Opporsi alla bio-violenza è forse più complesso di quanto lo è combattere fenomeni sottili come il greenwashing, che si moltiplicano in ogni dove per cercare di coprire con un vestito buono l’evidente insostenibilità del sistema capitalista. Ma le notevoli difficoltà di prendere parola in determinati contesti “più delicati” non possono essere una valida ragione per restare in silenzio. Nella grande complessità dei tempi che stiamo vivendo, in cui la violenza istituzionalizzata e lo sfruttamento nei confronti del vivente assumono di volta in volta sembianze più gentili ed ingannevoli non dobbiamo avere timore di raccontare ciò che si cela dietro alla patina di rispettabilità di un dato fenomeno.
Giuntə a questo punto occorre però fare una precisazione, perché non sarà sfuggito agli occhi di nessunə l’emersione soprattutto sui social network di una contronarrazione altamente ingiuriosa: quella di Agitu come crudele sfruttatrice di poveri animali indifesi, della cui morte non c’è motivo di dolersi. Ovviamente il vomito semplicistico e velenoso che in queste settimane scorre a fiumi in certi gruppi di animalarə online non mi appartiene, ma mi ha dato l’opportunità di riflettere. Se questa donna fosse stata una persona qualunque, che svolgeva una qualsiasi altra professione, in quantə avrebbero avuto qualcosa da ridire rispetto al commiato seguito alla sua brutale uccisione? È corretto additare una singola allevatrice come responsabile, quanto e più dell’ideologia stessa della “fattoria felice”, del racconto martellante della legittimità dell’(ab)uso dei corpi animali? No! L’antispecismo giustamente indica l’ideologia mistificatoria della “fattoria felice”, ma sono ancora in tantə coloro che si limitano a guardare il dito e non la luna. La verità è che è oltraggioso prendere di mira una persona, che semplicemente svolgeva il suo lavoro, né più né meno di quanto tuttə noi facciamo quotidianamente, come ingranaggi di macchine, quale più quale meno, distruttive e decisamente non etiche. Illudersi di essere al di sopra delle parti e riuscire a non macchiarsi mai in questo sistema economico corrotto e melmoso nel quale siamo immersə è, a dir poco, da ingenuə.
È la dinamica sistemica con cui ci dobbiamo confrontare: il solo fatto di essere vivə la alimenta! Conosciamo bene i macroscopici limiti di un certo pensiero animalista manicheo, che semplicemente divide il mondo in esseri umani “cattivi” e animali “poverini”, e che nemmeno percepisce l’esistenza di quella inestricabile complessità socio economica e culturale che tutto sovrasta e governa. È a questa complessità che chi dichiara di voler portare avanti la questione dei diritti animali deve puntare e non certo alla colpevolizzazione delle singole persone che per un motivo o per l’altro si ritrovano ad essere ingranaggi di questa macchina infernale.
Non mi permetterei mai di rinfacciare ad Agitu il lavoro che svolgeva, e ci mancherebbe altro, anche perché non va dimenticato che la sua posizione era quella di una persona migrante proveniente da una società dove sono ben pochə coloro che, al riparo da una condizione di povertà estrema, hanno il privilegio di poter riflettere circa l’eticità dello sfruttamento di un (altro) animale. E voglio condannare con fermezza la sua brutale uccisione ed il vilipendio del suo corpo agonizzante ad opera dell’ennesimo maschio che apparentemente non è in grado di vedere in un individuo di sesso femminile un suo pari, ma sempre e comunque qualcosa di inferiore che va dominato fino a sovrastarlo con l’unica ragione della forza fisica. Di lei vorrei conservare il ricordo di una compagna resistente, che dopo essere stata costretta alla fuga dalla sua Etiopia, anche qui in Trentino non aveva mai smesso di denunciare il ruolo centrale delle multinazionali nostrane nell’accaparramento violento delle terre sottratte alle comunità contadine e le tremende difficoltà di queste ultime nel fronteggiare gli enormi squilibri ambientali conseguenza di mega progetti energetici o legati all’agribusiness che si traducono in siccità e desertificazione, quindi in fame ed emigrazione. Una donna indipendente e determinata che, esiliata in un Paese che certo non brilla per il suo sistema di “accoglienza”, con le sue sole forze era riuscita a costruirsi una nuova vita costellata di moltissime relazioni, intrecciando tanti diversi percorsi di resistenza tra i quali quelli che sono anche i miei [4].
Concludo questa lunga riflessione con l’auspicio che le capre appartenute ad Agitu, e alle quali lei era indubitabilmente molto affezionata, possano trovare migliore destinazione che l’affido ad un allevatore qualsiasi, che si concluderebbe certamente con la consueta separazione forzata delle madri dai capretti maschi. Il mio più grande desiderio è che coloro che nelle prossime settimane saranno chiamatə a decidere della sorte di quel gregge si dimostrino realmente disponibili all’ascolto di quel dolore animale, se sarà così sono certa che non potranno non optare per l’affido dell’intero gruppo alla Rete dei Santuari di Animali Liberi [5], le realtà che ad oggi più si avvicinano a quel mondo liberato per il quale non smetterò mai di lottare.
[1] https://thesubmarine.it/2020/12/30/agitu-gudeta-simbolo-integrazione/
[2] <La bio-violenza [...] propone dei modelli di produzione bucolici, che evocassero la tradizione e un passato idealizzato. I simboli di questa narrativa sono la vecchia fattoria familiare, il contadino “di una volta” e animali liberi di scorrazzare per la campagna. Proprio perché questo passato “premoderno” è sconosciuto al cittadino occidentale medio, esso è risultato affascinante ed è parso una risposta credibile a quanti, antropocentricamente, non hanno mai messo in dubbio lo status degli animali come proprietà. La bio-violenza delle origini, quindi, con un gesto solo apparentemente rivoluzionario, ha concesso che gli animali fossero individui (e non più oggetti), ma non ha mai messo in dubbio che la loro sorte potesse essere discussa e decisa al di fuori delle scelte individuali di consumo.> tratto da http://bioviolenza.blogspot.com/2019/06/senza-piume-senza-corna-senza-senso-le.html
[3] https://animaliena.wordpress.com/2018/09/27/perche-essere-antispecista-e-cosi-emozionalmente-estenuante/
[4] https://www.facebook.com/oltreconomiafestival/posts/3609764335783966
[5] https://www.agenpress.it/2021/01/01/le-capre-di-agitu-ideo-gudeta-diventino-testimoni-della-sua-storia-di-riscatto/